Intervista esclusiva a Marco Tenaglia, nuovo Presidente del Fapi, Fondo interprofessionale di riferimento per Confapi: «In Italia sono 19, ma noi siamo gli unici basati su un principio solidaristico a misura di Pmi. Il futuro? Mi piacerebbe che i fondi potessero avere anche un ruolo propositivo nella formazione dei disoccupati». Sono salite a 934 le aziende padovane che hanno scelto il Fapi, a conferma del valore della sua offerta formativa.
Classe 1965, Presidente di Confapi Varese, padre di tre figli, laureato in giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano, dai primi di novembre Marco Tenaglia è il nuovo Presidente del FAPI, il Fondo Interprofessionale paritetico costituito da Confapi, Cigl, Cisl e Uil. Confapi Padova lo ha intervistato in esclusiva, per capire quali saranno le linee guida del suo mandato e quali le criticità da affrontare.
Gentile Presidente, congratulazioni per la nomina alla guida del Fapi, fondo interprofessionale per la formazione aziendale, fiore all’occhiello di Confapi. A bruciapelo: in che stato di salute l’ha trovato e quali saranno le priorità su cui imposterà il suo operato?
«Ho trovato un’organizzazione efficiente e molta disponibilità da parte delle persone che lavoreranno con me. D’altra parte, già da un anno faccio parte del Consiglio di amministrazione del Fondo, per cui sapevo che sarebbe stato così.
Oggi sono più di 280 mila i lavoratori aderenti, in rappresentanza di 36 mila imprese - e, tra queste, sono ben 934 le aziende padovane che hanno scelto il Fapi - ma se rivolgo lo sguardo al domani direi che la priorità è quella di allargare la nostra base associativa, e questo per arrivare a poter contare su disponibilità economiche maggiori rispetto agli 11-12 milioni che mettiamo a disposizione delle imprese ogni anno, in modo poter conseguire obiettivi formativi più profilati su quelle che saranno le competenze da sviluppare nel prossimo futuro.
Si tratta anche di mettere a frutto l’enorme lavoro portato avanti dalla stessa Confapi, che sotto la presidenza Casasco ha potuto giovarsi di una ribalta mediatica di cui non aveva mai goduto in precedenza: dobbiamo capitalizzare questa visibilità per tradurla in un aumento nel numero delle adesioni, che porterà, per diretta conseguenza, a un aumento dei contributi destinati delle attività del Fondo».
Il Fapi promuove un sistema solidaristico che permette anche alle aziende più piccole di poter accedere alla formazione. Le articolazioni regionali quale ruolo giocheranno nella vostra strategia di sviluppo?
«Come sapete il Fapi non ha articolazioni regionali, ma conta sul lavoro svolto nelle province dalle Confapi territoriali. Da lì parte l’attività di promozione, anche attraverso eventi organizzati dallo stesso Fapi e ospitati nelle sedi delle Associazioni, come quello che si è svolto a Padova nelle scorse settimane o come quelli, ad esempio, che programmiamo regolarmente anche nella mia Varese, coinvolgendo le aziende. Ma è nell’interesse di tutti ampliare il bacino di riferimento, e la strada non può che essere questa.
Siamo poi aperti a collaborazioni ulteriori, con soggetti aggregatori come i consulenti del lavoro, ma è chiaro che oggi, in primis, puntiamo sulle associazioni. È inevitabile che sia così, perché sono le realtà più radicate nei rispettivi tessuti economici. In questo senso in Veneto, e a Padova in particolare, ci sono collaboratori preziosi, impegnati in prima fila per far crescere il sistema».
I fondi interprofessionali sono stati costituiti più di vent’anni fa in un sistema industriale diverso da quello attuale, così come diverse erano le competenze richieste. Una realtà che da presidente di un’Associazione importante come quella di Varese conosce bene. Sono uno strumento destinato a restare? E in che modo si potranno evolvere nei prossimi anni?
«Alla base dell’operato del fondo c’è una logica di confronto fra le parti sociali, un dialogo mirato anche a saper cogliere le necessità che si presentano nel tempo e le modifiche da apportare agli strumenti. La prospettiva deve continuare a essere questa. Tenete presente che molto dipende anche dalle risorse a disposizione del Fondo. Quello che possiamo auspicare è che in futuro si possa tener conto più di quanto non succeda oggi delle differenze che esistono tra un fondo e l’altro in termini finanziari e contributivi: come sapete, di base il 20% del totale delle risorse è destinato alla “gestone della macchina” Fapi, tra spese di funzionamento e propedeutiche, mentre l’80% è indirizzato alla formazione, mentre servirebbe una maggiore elasticità. Ci auguriamo che il nuovo Governo - in cui il Ministro del lavoro è Maria Elvira Calderone, una consulente del lavoro, che quindi conosce bene la realtà dei fondi interprofessionali - possa intervenire in tal senso».
Oggi più che mai le politiche attive del lavoro sono al centro dell’agenda nazionale e regionale: cos’è possibile fare per rafforzare la loro incisività?
«Il dialogo con la politica c’è e dovrà esserci sempre. Tenete però presente che i fondi non sono uno strumento di attuazione delle politiche attive del lavoro, ma piuttosto tavoli paritetici che servono a distribuire, sotto forma di risorse per la formazione, quanto proviene dallo 0,30% di ciascuna busta paga di soggetti già iscritti. Per essere chiari: oggi, se l’azienda aderisce a un fondo, potrà poi rivolgersi al fondo stesso per finanziare la formazione continua dei suoi lavoratori; al contrario, con la normativa attuale, non possiamo incentivare politiche attive andando a lavorare con soggetti che non siano già iscritti. Ora, è evidente che se il fondo deve essere un mero ri-distributore di risorse per la formazione agli iscritti è un conto, se invece lo chiamassimo a lavorare anche con chi non è iscritto il quadro cambierebbe. Se si potesse farlo ci sarebbero sicuramente sovrapposizioni iniziali con i soggetti istituzionali competenti nella definizione delle politiche di formazione continua nel nostro Paese (il Ministero del Lavoro, le Regioni e l’Anpal), ma si potrebbe arrivare a una co-programmazione in grado di rispondere più efficacemente ai fabbisogni di imprese e lavoratori. La domanda da porsi è: perché il problema della disoccupazione deve essere affrontato esclusivamente da strutture pubbliche e non da soggetti privati? Ecco: l’auspicio è che i fondi interprofessionali possano arrivare a ricoprire un ruolo propositivo, anche in virtù del fatto che sono il miglior indicatore delle evoluzioni del mercato del lavoro.
Altro aspetto a cui tengo molto: proprio la formazione è un ingrediente fondamentale per combattere la disoccupazione e questo proprio perché è il miglioramento delle competenze a garantire il mantenimento dei posti di lavoro. Non dimentichiamolo».
Per salutarci, una provocazione: c’è chi dice che i fondi interprofessionali, ben 19 in Italia, siano troppi. Lei cosa ne pensa?
«Io sono per la libera concorrenza e non credo che il problema sia nel numero dei fondi presenti, anche perché ognuno ha un suo target di riferimento, così come ognuno nasce su una base conciliativa tra datore di lavoro e parte sindacale. Tanto più che tantissime aziende non sono iscritte ai fondi e che quindi il loro “mercato” può crescere ancora. Per riallacciarci a quanto dicevamo in precedenza, il problema, piuttosto, è legato all’organizzazione e alle strutture su cui ogni fondo può contare.
Su un aspetto, però, vale la pena di soffermarsi. Questo: i fondi interprofessionali oggi sono 19, ma l’unico fondo solidaristico, a misura di Pmi, è il nostro. Mentre tutti gli altri restituiscono formazione in base a quanto versa l’azienda, il Fapi raccoglie da tanti e dà benefici anche a chi non potrebbe permetterseli, in una logica che mira a sostenere chi ha dimensioni più piccole senza lasciare nessuno indietro. E non è una differenza di poco conto».